Il giudizio è un meccanismo attraverso il quale una persona incasella la realtà dividendola in cosa è giusto e cosa è sbagliato. E’ una specie di filtro attraverso cui guarda il mondo e anche se stessa, praticando una costante valutazione automatica di bene o male, bello o brutto, piacevole o spiacevole, giusto o sbagliato.
Il giudizio è automatico, in quanto registrato nell’inconscio come un programma, ed è ripetitivo: questo significa che si attiva da sè, attraverso delle forme-pensiero e delle convinzioni, senza che la persona scelga realmente con consapevolezza. E’ come il battito del cuore o la digestione: accadono, non siamo noi che scegliamo di farli o non farli accadere.
Cosa accade quando giudichiamo noi stessi e gli altri
Ognuno di noi impara a giudicare durante la prima fase dell’infanzia, attraverso i modelli educativi che assorbe e che registra nella mente inconscia come delle verità. Un bambino impara dagli adulti di riferimento e dalla società di cui è parte, per cui crescendo sviluppa la convinzione inconscia che tutto può essere oggetto di valutazione giudicante. In primis se stesso!
Molto precocemente, il bambino impara che talvolta viene approvato dalle figure di accudimento, per cui è bravo, buono, riconosciuto e amato; altre volte invece viene sgridato, guardato male, addirittura offeso, punito o umiliato, e quindi in quei casi diventa il bambino cattivo. Il giudizio inizia già a crearsi in questo meccanismo duale: il bambino crea dentro di sé una scissione tra le parti buone (cioè approvate dall’esterno) e le parti cattive (cioè non approvate dall’esterno), che quindi diventeranno i suoi lati ombra da tenere nascosti, da dimenticare, da non mostrare agli altri e magari da non riconoscere nemmeno da sé.
Ecco che, sulla base di questo meccanismo, ognuno di noi si costruisce interiormente una specie di filtro con cui guarderà se stesso e il mondo, un filtro che costantemente separa tra giusto e sbagliato. E’ un meccanismo automatico che appartiene alla sfera della personalità, o ego, e quindi è anche un senso di identità. Ognuno di noi si identifica con il proprio ego, finché non decide di risvegliarsi alla Presenza, e dunque anche con il proprio giudice interiore.
Quando giudichiamo noi stessi significa che ci costringiamo a rimanere imbrigliati in azioni, comportamenti, pensieri ed emozioni che a livello inconscio vengono catalogati come “corretti, buoni, giusti”, e rifiutiamo qualsiasi altra scelta che venga reputata “sbagliata”. Anche a costo di tradire noi stessi.
Quante volte ci ritroviamo a dire di sì a qualcuno anche quando dentro di noi rimbomba un grande no? Quante volte ci siamo preclusi di vivere un’esperienza che sentivamo importante a causa della vocina che ci diceva “ma no, non ce la farai, lascia stare”? Quante volte abbiamo sofferto a causa delle nostre stesse critiche feroci, magari sulla nostra forma fisica o sul nostro bisogno di esternare delle emozioni “scomode”?
Il giudizio verso noi stessi è un meccanismo violento e nocivo attraverso il quale ci manteniamo in uno stato di impotenza e di insoddisfazione, auto-generando sofferenza e frustrazione. Il problema più grande è che non ci accorgiamo di questo processo, perché ci siamo fortemente identificati, e quindi tutto accade in automatico, senza la nostra vera volontà cosciente.
Quando giudichiamo gli altri, tendiamo a classificare tutto (comprese le situazioni) in queste due grandi categorie: il giusto e lo sbagliato. Dunque pensiamo o parliamo in base a questo sistema valutativo mentale; da qui nascono le critiche ai comportamenti altrui, i pettegolezzi sugli altri (il famoso parlar male), i sentimenti di disprezzo, risentimento, invidia, svalutazione. Ogni volta che giudichiamo qualcuno, stiamo nutrendo emozioni e sensazioni spiacevoli; stiamo incasellando quella persona nella categoria “sbagliato”, stiamo ergendo noi stessi a soggetti “superiori” che si sentono in diritto di dire agli altri cosa dovrebbero pensare, come dovrebbero agire, cosa dovrebbero mangiare, quale partito politico dovrebbero votare, ecc. Da qui sorge anche l’esigenza di avere ragione, in modo che il nostro ego si senta potente e “speciale”.

Il giudizio verso le situazioni è il meccanismo che maggiormente genera infelicità: è una continua lotta contro la vita, “controcorrente”, è un modo per rifiutare ciò che è, rimanendo prigionieri della resistenza e della non-accettazione. Quante volte abbiamo detto o pensato “non può essere così! dovrebbe essere diverso!”.
La negazione di ciò che accade attraverso il giudizio ci allontana dal nostro vero potere personale, che possiamo incontrare solo nel qui e ora, in relazione a ciò che accade, e in uno spazio di accettazione totale di ciò che accade, che di per sé non è né giusto né sbagliato, ma è neutro.
La vita di moltissimi esseri umani è fortemente influenzata dal meccanismo del giudizio, ci sono persone che vivono perennemente arrabbiate e insoddisfatte perché intraprendono una lotta illusoria contro la vita, rifiutando ciò che la vita porta con sé, e quindi sembra che niente mai vada bene, nessuno mai sia perfetto così come è. Sono persone che vivono ipnotizzate dalle loro forme-pensiero che incasellano continuamente la realtà nel giusto o sbagliato, e che tendono quindi a controllare tutto e tutti per sentirsi un po’ più al sicuro. E’ uno sforzo immenso, che può condurre anche a somatizzare nel corpo sviluppando sintomi o patologie.
Il non-giudizio come pilastro della Mindfulness
La disciplina della Mindfulness, fondamentale per coltivare la Presenza e dunque disidentificarsi dalla personalità o ego, si fonda su 7 principi, detti anche pilastri, che rappresentano le attitudini del Cuore, cioè quelle qualità, quelle risorse che risiedono nella nostra coscienza più allargata, nella parte più autentica e profonda di noi, nel nostro Essere.
Uno di questi pilastri è proprio il NON-GIUDIZIO. Attraverso lo stimolo dell’attenzione consapevole possiamo innalzare la nostra vigilanza ed essere maggiormente presenti; questo è utile per poter riconoscere sempre più nitidamente il meccanismo del giudizio. Di per sé, non si può sradicare il giudizio a forza, va prima osservato, riconosciuto, percepito attraverso la Presenza.
Essendo un processo automatico, meccanico, che si mette i moto da sé, senza che noi interveniamo con la nostra volontà, è fondamentale prima di tutto accorgerci del processo stesso. Accorgendoci del processo, facciamo un passo indietro, creiamo spazio tra noi e il giudizio stesso, compiamo un passo verso la disidentificazione da questa parte del nostro ego.
E’ come se potessimo smettere di credere che tutto quello che la mente giudica sia vero. In realtà infatti non lo è, si tratta solo di un pensiero, di una credenza. Ogni accadimento, ogni fatto, ogni persona di per se sono neutri, quindi non serve attribuire un’etichetta di giusto o sbagliato. Piuttosto, smettere di giudicare ci restituisce molta energia, molto potere, al fine di renderci liberi di riconoscere cosa è funzionale per noi e cosa no.
Il non-giudizio ci permette di aprire la coscienza alla consapevolezza: smettere di giudicare non vuol dire rassegnarci e farci andare bene tutto, bensì significa imparare a sentire dentro, più profondamente, le persone o le situazioni che ci risuonano e quelle che invece non ci risuonano, per poter quindi discernere meglio in ogni contesto della vita, con la consapevolezza che ciò che non ci risuona non è necessariamente sbagliato, è solo che non è funzionale per noi in quel momento.
Attraverso il non-giudizio impariamo anche dire di no in modo deciso ma comunque rispettoso dell’altro; impariamo a lasciar andare situazioni nocive senza necessariamente arrabbiarci o arrivare a odiare qualcuno o qualcosa (per esempio un lavoro, una casa, una città ecc.). Il non-giudizio è discernimento, cioè attitudine alla scelta dallo spazio del Cuore, della coscienza, cioè dallo spazio autentico di noi stessi.
Osservare in modo vigile e attento il nostro giudice interiore, ci permette anche di comprendere e di accorgerci che il giudizio funziona a specchio: giudichiamo sbagliato all’esterno ciò che consideriamo sbagliato in noi, e viceversa. Dunque allenarci a osservare il giudizio ci rende senz’altro più aperti a riconoscere l’altro come parte di noi.
Nel film Avatar, che consiglio a tutti di vedere o di rivedere per il suo altissimo contenuto simbolico, gli abitanti della Casa-Albero si salutano con la frase “Io ti vedo”, che non è tanto diversa dal Namaste dei popoli orientali. Dire a una persona “Io ti vedo” significa aver lasciato andare ogni giudizio, e saper guardare con gli occhi dell’Essere: vedo davvero chi sei, vedo il tuo Essere (perché sono in contatto con il mio Essere), e magari vedo anche il tuo ego, ma accolgo tutto senza etichette. Se poi mi accorgo che il tuo ego è disfunzionale per me, allora mi allontano, ma non sento più il bisogno di ergermi a persona migliore di te, giudicandoti.

La pratica meditativa per sperimentare il non-giudizio
All’interno del protocollo Mindfulness esiste una pratica molto potente, che io amo particolarmente, che si chiama Meditazione Metta. Questo termine significa “compassione”, in sanscrito. La pratica serve a sviluppare l’attitudine del non-giudizio, in modo da “vedere” l’altro con l’occhio del Cuore.
Dopo esserti connesso al respiro e al corpo, inizia a visualizzare una persona verso cui provi una sensazione di avversione a causa del forte giudizio che si attiva verso di lei. Crea l’immagine di questa persona davanti a te, e guardala attraverso gli occhi interiori, lasciando che dentro di te si attivino le sensazioni abituali che di solito questa persona ti induce.
Quando ti senti pronto, inizia a pronunciare delle frasi mentalmente, in modo lento e consapevole, tipo questa: “anche tu, come me, hai avuto un passato difficile”, oppure “anche tu, come me, da piccolo hai sofferto”, oppure ancora “anche tu, come me, sei una creatura in cammino” ecc. Il senso è trovare delle frasi che possano accomunare questa persona alla tua esperienza, al tuo vissuto. Non importa conoscere i fatti che questa persona ha realmente vissuto, e non importa nemmeno conoscere cosa vi accomuna veramente.
Ma occorre restare presente al tuo sentire, individuare delle frasi in modo intuitivo, senza pensarci sopra, lasciando che sgorghino dal profondo. Ogni frase che arriva, la ripeti per tre volte, guardando la persona negli occhi, e ascoltando cosa succede dentro di te. Continua per almeno 20 minuti, formulando due o tre frasi diverse, e sii vigile e attento rispetto a ciò che accade.
Magari senti che il giudizio si scioglie un po’, magari ti accorgi di provare maggior empatia, maggior vicinanza a questa persona. Oppure puoi accorgerti che questa persona non è funzionale per te, magari è davvero una persona con tratti di personalità violenti e nocivi, ma senti di poterla lasciar andare senza rancore, senza risentimento, semplicemente la saluti nella quiete dell’Essere, che non conosce giudizio, che non conosce dualità, che percepisce il Tutto dentro l’Uno e l’Uno nel Tutto.
Consiglio di praticare la Meditazione Metta nei confronti di tutte le persone del tuo passato verso le quali continui a provare sentimenti di avversione, magari a causa di situazioni spiacevoli vissute o rapporti chiusi in maniera improvvisa per un litigio o una profonda incomprensione. Lasciar andare il giudizio è la chiave per aprire il cuore alla Compassione, in modo da riconoscere che tutto è di per sé neutro, e che siamo noi gli unici ad avere il potere di sciogliere legami energetici che potrebbero restare intrappolati nel nostro campo quantico.