Sembrano passati tanti anni da quel marzo del 2020, in cui quasi tutto il mondo si fermò e milioni di persone si trovarono all’improvviso chiuse in casa, senza la possibilità di andare a lavorare, a salutare gli amici, a prendere un caffè.
Eppure oggi, dopo tre anni, alcune strane prassi adottate in quel periodo, permangono nella nostra quotidianità. Questo è il tipico fenomeno dell’assuefazione, a cui l’essere umano è continuamente esposto come rischio implicito di uno stato di addormentamento della coscienza.

Lo smart-working come esigenza reale
Una delle soluzioni che vennero proposte durante i mesi di reclusione casalinga, fu quella dello smart-working, termine che indicava semplicemente la possibilità di lavorare standosene comodamente a casa, davanti a un pc, con il proprio smartphone e magari un quaderno per scrivere. Molti tipi di mansioni possono essere svolti da remoto, non occorre per forza essere tutti insieme in un luogo fisico, come per esempio un ufficio o una sala riunioni.
Ecco che in quel tempo, per scongiurare il rischio di fallimento per assenza di attività, moltissime aziende, cooperative, associazioni, istituzioni pubbliche, fecero ricorso a questo escamotage, proponendo ai propri dipendenti la possibilità di lavorare ognuno a casa sua. L’utilizzo di strumenti quali Skype, Zoom, Meet, ebbe un boom mai visto prima, se non altro anche attraverso la didattica a distanza a cui dovettero ricorrere le scuole di ogni ordine e grado.
Ricordo chiaramente le tante telefonate che ho ricevuto dai miei pazienti e dai corsisti delle nostre Scuole di crescita personale: in ognuno di loro nei primi momenti c’era confusione, smarrimento, sorpresa, e anche un po’ di sgomento. Mi trovavo ad ascoltare storie assurde di persone costrette a lavorare al pc mentre i figli scorrazzavano in casa urlando, persone rimaste isolate da sole davanti a un freddo schermo, senza la possibilità di condividere un po’ di calore umano, giovani che passavano le giornate in pigiama in attesa dell’interrogazione online… Ma c’erano anche coloro che mi dicevano: “wow che bello! Finalmente posso alzarmi e lavorare senza perdere tutto quel tempo a fare la doccia, a truccarmi e pettinarmi” e ancora: “wow che bello! Così non devo vedere ogni giorno il mio capo che detesto!”
Eppure in questa dualità, mi sembrava di cogliere una grande opportunità nel processo dello smart-working, ossia quella di potersi mantenere un impiego e uno stipendio nonostante tutto.
Con il passare del tempo però, si è scorto il grande vantaggio economico che sta dietro lo smart-working: riduzione dei costi fissi di uffici e luoghi fisici di lavoro, riduzione dei costi di spostamento, risparmio di tempo e di energia per andare da un posto all’altro… E questo vantaggio materico è la ragione che sta alla base della conservazione di questa metodologia di lavoro, anche dopo che l’emergenza sanitaria è finita e il mondo ha iniziati di nuovo a muoversi e a mettere il naso fuori di casa.
Se da una parte le aziende hanno deciso di sfruttare i vantaggi suddetti, dall’altra molti lavoratori si sono assuefatti alla comodità di non doversi spostare, accettando di continuare a lavorare a distanza da casa.
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Comodità o socialità?
Ma quali sono le conseguenze interiori di questo cambiamento? Da un punto di vista del lavoro su di sé, possiamo dire che la personalità vive di comodità. I nostri corpi terreni ricercano sempre la via più facile, la zona di comfort, il minor sforzo. Le nostre personalità non hanno dimestichezza con la disciplina, con la volontà, con il sacrificio, desiderano solo essere disturbate il meno possibile. Dunque un’abitudine “comoda” diventa presto assuefazione, se si è totalmente identificati con la personalità e se la nostra coscienza è addormentata.
Il grande rischio di questa assuefazione è la perdita di socialità, di condivisione, di relazione umana. Lavorare da soli, in casa, ogni giorno, ci induce a una maggior pigrizia, e ci sconnette da tutti quei momenti in cui ci scambiamo un sorriso con qualcuno, ci diciamo due parole di conforto, ci raccontiamo una breve barzelletta per alleggerire il carico di stress. Rinunciare ai luoghi collettivi di lavoro, perché è più comodo, significa a qualche livello rinunciare alla nostra natura umana, che è fatta soprattutto di socialità. La nostra specie è di fatto costituita da alcune caratteristiche simili ad altre specie animali, tra cui il bisogno di vivere con gli altri. Che fine fa la nostra socialità se restiamo isolati e prigionieri della comodità?
Sicuramente andare ogni giorno in ufficio genera un maggiore sforzo: la sveglia va puntata su un orario più scomodo, bisogna vestirsi, lavarsi e curare la nostra immagine fisica, bisogna essere aperti al confronto, allo scambio, magari anche al conflitto, bisogna passare del tempo in macchina o sui mezzi per arrivare e tornare. Ma questo sforzo aggiuntivo ci permette di aprirci agli altri, di vivere il lavoro non solo come mansione da svolgere, bensì come simbolo della cooperazione, della condivisione, del gioco di squadra, generando un senso di appartenenza che ci fa stare bene e che ci aiuta a evolvere da una coscienza individuale a una coscienza di gruppo.
Dunque la domanda che possiamo porci è: cosa desidera davvero il mio cuore tra comodità e condivisione? Forse la personalità risponderebbe di getto la prima opzione, ma se tu ti permetti di scendere un po’ più in profondità dentro di te… Cosa accade se ascolti davvero il tuo cuore?