Quando ricevetti Alberto il primo giorno di sessione, notai subito la paura nei suoi grandi occhi nocciola. Il fisico era piuttosto magrolino, la voce provata e anche un po’ intimidita, ma nel cassetto dei suoi sogni custodiva un mondo meraviglioso da voler realizzare.
Gli avevano diagnosticato una massa tumorale nel cervelletto e avrebbe dovuto subire, nel più breve tempo possibile, un importante intervento chirurgico e in seguito una radioterapia localizzata.
Doveva partire per andare nell’unico posto fuori città in cui questo intervento era possibile farlo, quindi il tempo a nostra disposizione non era moltissimo. La questione era che lui non solo mostrava iniziali impedimenti fisici come l’utilizzo scoordinato del linguaggio verbale, ma ben più impattanti erano i movimenti emotivi che lavoravano in profondità, quasi, in apparenza lontani da effetti visibili. Certamente Alberto non era tranquillo, eppure sembrava che tutto per lui fosse normale, come succede quando ci abituiamo a un nostro limite e al nostro dolore, adattando la nostra vita ai nostri problemi in maniera passiva.

Differenza tra pensare e sentire
“Cosa senti nel corpo mentre mi parli del tuo tumore?” gli chiesi, per aiutarlo a stare dentro di lui.
“Non so dirti, quello che so è che questo… coso… se ne deve andare e che io devo combatterlo in tutti i modi.”
Fu allora che ebbi un’intuizione e giocai la carta dell’empatia.
Per molti succede che, nel momento in cui abbiamo un disturbo nel corpo più o meno grave, tutta la nostra attenzione è rivolta nel rimuoverlo più che nel comprenderlo: eppure ciò che avviene dentro di noi non è qualcosa di scisso da noi, né tanto meno qualcosa che arriva per punirci: risultato di una cultura del peccato. Piuttosto è qualcosa, senza ogni dubbio, che è stato maturato dentro di noi e che ci sta portando il segno di qualcosa che è importante vedere. E se noi riusciamo a entrarci in contatto, con l’empatia verso noi stessi e verso ciò che esiste dentro di noi, possiamo davvero trovare il punto di svolta della storia che ci lega a esso.
“Alberto, cosa ne dici se noi provassimo a dare un nome a questo… coso, come lo chiami tu? Ti invito, per un attimo, a sentire dentro di te come lo senti, innanzitutto…”
Man mano che ci si avvicinava al tumore, almeno da un punto di vista di attenzione consapevole, lui sentiva che era forte, deciso, spavaldo e senza paura alcuna, proprio come avrebbe voluto essere lui nella sua vita.
Vuoi ricevere il nostro corso gratuito “I 7 Pilastri della Mindfulness” + una sorpresa bonus ?
Il suo nome è Oliver
Da quel momento il “coso” si chiamò Oliver, e puntando a stabilire un dialogo insieme a lui, ovvero con se stesso, incominciò a sentirsi orientato verso le sue risorse potenziali piuttosto che alle sue debolezze.
Oggi è tornato dalle cure più forte di prima e posso davvero dire che, al di là della terapia allopatica, la chiave di svolta dello sguardo con cui ha cominciato a rapportarsi al tumore è stata fondamentale.
Ogni individuo ha la sua storia, dove può essere presente un malessere, e questa appena raccontata è la storia di Alberto e Oliver.