La sofferenza umana si articola in infinite sfumature soggettive e personali: ogni essere umano è portatore di una sofferenza interna, che proviene principalmente dai processi vissuti nel passato, in particolare nell’infanzia, registrati nella psiche come tracce invisibili di disconnessione dall’amore.
Poi ognuno sente la sofferenza a modo suo: c’è chi non riesce a entrare in relazione con gli altri in modo armonioso, chi non è capace di pianificare e raggiungere obiettivi professionali, chi accusa profondi stati di ansia o di inadeguatezza.
C’è poi un gradiente significativo di sofferenza: si va da quelli che vengono chiamati “malesseri esistenziali”, ossia dinamiche di insoddisfazione e di mancanza, fino ad arrivare a stati psicologici di compromissione che danno origine a psicosi, psicopatologie, sintomi psichiatrici.
La terapia della sofferenza
Dopo quasi vent’anni di esperienza nel mondo del Counseling e della psicologia, ho compreso che la vera relazione terapeutica è quella che lavora sulla sofferenza profonda che un individuo sente dentro di sé, al di là e al di sopra di come essa si possa manifestare in superficie, ossia come sintomo di malessere o dinamica di comportamento.
Quando una persona arriva e si siede di fronte a me per essere aiutata, mi sta portando la sua sofferenza, sta iniziando un tentativo di condivisione, come se potesse aprire un piccolo scrigno interiore e chiedermi di guardarci dentro, insieme, per vederla e accarezzarla.
Quindi, indipendentemente dall’argomento che vuole affrontare e risolvere, io so che c’è bisogno di addentrarsi in quello scrigno per incontrare e abbracciare quella sofferenza.
Qualcuno arriva chiedendomi di risolvere i problemi conflittuali con il partner, qualcuno viene perché non riesce a gestire l’ansia sul lavoro, qualcuno afferma che ha proprio bisogno di imparare a coltivare maggiore autostima.
Io ascolto, profondamente, per cogliere le tracce di qualcosa di più profondo, che vive nella psiche inconscia, e che genera la sofferenza sottesa al problema contingente.
Fare terapia significa stare insieme a qualcuno, condividendo gli stati emotivi di dolore, di rabbia, di paura, che emergono man mano che si apre lo scrigno della sofferenza, e che si dipanano, di fronte alla coscienza, le memorie dei vissuti del passato. Ognuno di noi, nell’infanzia, ha vissuto l’amore in un modo condizionato, ha introiettato modalità relazionali non del tutto funzionali, ha imparato a considerare se stesso così come è stato considerato.
Ma spesso da adulti non sappiamo fare questo link: i nostri problemi non sembrano così legati al passato, e allora è necessario generare consapevolezza e “tornare indietro”, con le memorie emotive e somatiche che sono rimaste bloccate e congelate. Stare insieme, guardarsi negli occhi, condividere profondamente le emozioni, viverle e lasciarle fluire, è un atto terapeutico senza eguali.
Non si tratta solo di applicare una tecnica, si tratta di vivere, in una relazione di accoglienza, tutti gli stati emotivi che la persona non si è mai permessa di vivere né da sola né con qualcuno. Sono quegli stati emotivi inespressi che generano sofferenza, come un magma che si muove nell’inconscio e che non trova via di uscita, e allora ribolle dentro, arrivando in superficie sotto forma di dinamica, di ansia, di malessere, di aggressività, ecc.
La Mindfulness al servizio della terapia
Per compiere un passaggio terapeutico di tipo relazionale, ossia per stare insieme alla sofferenza degli altri, è necessario aver compiuto un profondo lavoro su di Sé, aver imparato a essere pienamente presenti a se stessi e all’altro. Si tratta di aver sviluppato una buona attenzione divisa, ossia la capacità di sentire ciò che prova l’altro e di essere radicati dentro di noi, contemporaneamente.
Si tratta di attivare uno stato di coscienza in cui non si coincide più con i nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre sensazioni fisiche. Osserviamo e percepiamo cosa si muove in noi, ma siamo connessi alla consapevolezza, non ci lasciamo travolgere o risucchiare né dalle nostre dinamiche interne né dalla sofferenza dell’altro. Stiamo insieme a tutto questo, in uno stato di espansione del cuore, che in gergo psicologico si chiama coerenza cardiaca, ossia in uno stato di amore e compassione.
Non può essere solo uno stato mentale, cioè un pensiero, tipo “accolgo questa persona con amore”, ma può essere solo un sentire profondo che ci ancora alla vita, alla consapevolezza, e crea un campo protetto che permette all’altro di sentirsi finalmente libero di versare le lacrime che non ha mai versato, di esprimere la rabbia che non ha mai mostrato, di attraversare le paure che non ha mai espresso, di accedere alla vulnerabilità ferita che ha nascosto a tutti senza saperlo.
E questo guarisce, se per guarigione intendiamo un’espansione di coscienza in cui ci sentiamo più integri, connessi, confidenti, intimi con noi stessi, più completi.
A volte le persone mi dicono: “mi sento come una montagna, saldo in me stesso”, oppure “sento vibrare un’energia vitale nel corpo che mi fa sentire vivo e connesso”, o ancora “mi sento stabile e rilassato”. Nella maggior parte dei casi, sono sensazioni del tutto nuove che le persone non hanno mai provato.
A mio avviso è questa la guarigione: non si tratta di risolvere un sintomo o di cambiare un comportamento, si tratta di compiere un salto di coscienza che ci riunisce al nostro cuore e che ci fa ricordare chi siamo davvero: un essere unico, che splende come una stella, degno d’amore indipendentemente dai fatti e dai vissuti accaduti.
La Mindfulness dunque è fondamentale per coltivare nel terapeuta questo stato di coscienza, grazie al quale può essere pienamente presente e connesso a chi gli sta chiedendo aiuto.
Inoltre, avendo incarnato egli stesso la presenza, può aiutare il paziente o cliente a essere presente durante il processo terapeutico. Può invitarlo a sentirsi, a osservare cosa accade, a rimanere connesso con se stesso.
Senza averlo sperimentato su di sé, un terapeuta non può trasmetterlo all’altro.
Nelle nostre Scuole professionali di Counseling e di Coaching, infatti, formiamo i futuri terapeuti iniziando proprio dalla disciplina della Mindfulness, facendola sperimentare per tutto il primo anno, al fine di preparare uno stato di coscienza più espanso, che è alla base di qualsiasi terapia. Solo dopo, arrivano le “tecniche terapeutiche”, ossia quelle modalità con cui ci possiamo addentrare nella sofferenza umana.
Senza la capacità di essere del tutto presenti e connessi, qualsiasi tecnica diventa un mero strumento. Un pianoforte è un pianoforte, e le note musicali sono la base di una tecnica. Ma ciò che fa la differenza è la maestria con cui la tecnica viene utilizzata. La stessa cosa vale per la terapia.
Come in ogni altro ambito di vita, la vera differenza risiede nello stato di coscienza con cui si utilizza un metodo, una disciplina. Ecco che allora, in uno stato di profonda presenza, tutto può emergere ed essere accolto, lo scrigno può essere aperto, la sofferenza può fluire libera, e la guarigione può avvenire, una volta per tutte.