Molte volte sento pronunciare la parola perdono dalle persone che seguo nelle mie terapie e nelle Scuole dell’Essere. Si riferiscono a eventi del passato, a persone con cui hanno avuto conflitti, molto spesso anche ai genitori per il tipo di atteggiamento che hanno ritenuto sbagliato nei loro confronti.
Ma ogni volta osservo che il perdono proviene da un pensiero mentale, da uno sforzo cognitivo di giustificare gli eventi, le persone, se stessi, nel tentativo di dimenticare, andando avanti, senza una vera rielaborazione profonda. Di solito c’è chi interpreta il perdono come una specie di oblio, dicendo a se stesso “non vale la pena che stia lì a pensare a questa persona, volto pagina, non ne voglio più sapere”, c’è chi invece pensa in modo new age che si è auto creato quella realtà e che quindi è giusto perdonare l’altro perché è lo specchio e quindi va bene così. Non che questo non sia vero, ma la creazione della propria realtà e la legge dello specchio non possono essere solo eventi mentali, è necessario che provengano da uno spazio cardiaco di coscienza, altrimenti diventano strategie di rimozione.
Cosa possiamo perdonare?
Ognuno di noi, inevitabilmente, porta dentro di sé dei vissuti spiacevoli, delle esperienze relazionali che hanno lasciato ferite e generato sofferenza. Talvolta è una relazione di coppia andata male, perché il partner ci ha traditi o ci ha lasciati malamente; c’è chi ha subito dei soprusi sul lavoro, e poi magari è stato licenziato per giochi di potere interni all’azienda; o ancora, alcuni hanno chiuso delle amicizie importanti perché si sono sentiti incompresi, sfruttati, manipolati. Molte persone nutrono del rancore verso la famiglia di origine per la sensazione di non aver ricevuto amore, per come ne avevano bisogno, per come lo desideravano.
Il vero perdono nasce dal cuore, non dalla mente.
Potremmo fare moltissimi esempi, ma il filo conduttore di tutte le situazioni passate che rimangono fossilizzate dentro di noi come una ferita aperta, è la sofferenza. Abbiamo a qualche livello provato dolore, rabbia, disgusto, paura.
Ma non siamo stati in grado di elaborare questi vissuti su un piano emotivo, perché la maggior parte dell’umanità non è in grado di farlo.
Dunque, abbiamo potuto affrontare la sofferenza attraverso due modalità:
lasciandoci andare a reazioni emotive scomposte, come aggressività, disperazione, lamento, malinconia, senza elaborarle attraverso una regolazione consapevole, un silenzio interno intorno all’emozione, un tempo sufficiente e necessario per contenerla e darle uno spazio nella coscienza; di fatto le abbiamo subite, e le emozioni ci hanno dominato portandoci a compiere gesti o a dire cose da uno spazio reattivo, lasciandoci spossati e svuotati di energia;
chiudendo completamente il canale emotivo, non sentendo più niente, spostandoci così su un piano mentale, dal quale abbiamo dato origine a giudizio, rimuginio, critica, vendetta, rancore; il detto popolare che recita “questa me la lego al dito”, rende bene l’idea di questa seconda possibilità di reazione alla sofferenza.
In entrambi i casi, non c’è una vera guarigione della ferita, non c’è una crescita interiore che ci permette di evolvere a livello coscienziale grazie alla sofferenza. Le emozioni dunque si cristallizzano dentro di noi. Il tempo passa, ma il nodo emotivo resta. Ed è in questo processo che si insinua l’idea di perdono mentale: come una strategia di sopravvivenza, ci serve a dirci che siamo buoni e che abbiamo la capacità di capire le gesta di chi ci ha fatto del male, di “scusarlo” giustificandolo in qualche modo, e giustificando noi stessi per la nostra posizione di “vittime”.
Il perdono non è giustificare o scusare qualcuno che ci ha fatto del male, non è tentare di dimenticare facendo finta di niente, non è nemmeno un modo di dire appreso a pappagallo a catechismo o in Chiesa. Tantomeno può essere un prodotto del pensiero “l’altro è un mio specchio quindi è colpa mia, me lo sono creato io il tradimento”.
Il vero perdono, quello di cui realmente parlava e professava il Cristo, è un atto del Cuore che diventa coscienza ampliata. E non può accadere se prima non si entra in profondo contatto con il materiale emotivo che ha generato la sofferenza.
Aprire il cuore a una nuova conoscenza.
Il primo e fondamentale processo da compiere dentro noi stessi riguarda il contatto con le emozioni: quanta rabbia c’è dentro di noi, ancora oggi, verso il tradimento di un partner o verso un certo maltrattamento ricevuto da un amico? E quanto dolore è rimasto inespresso per esserci sentiti profondamente feriti da una persona?
Accedere agli spazi emotivi, in presenza, con un’attitudine accogliente e amorevole, ci permette di sentire fluire le emozioni nel corpo, di starci in contatto senza reagirle né reprimerle, di lasciare che ci attraversino come una corrente intensa e potente, mentre noi stiamo lì, nell’occhio del ciclone, e lasciamo che accada.
Ci lasciamo ardere dall’interno vivendo tutta la rabbia mai espressa o reagita all’esterno, la conteniamo dentro e rendiamo il nostro corpo un veicolo di questa intensa energia calda, vibrante, come un fuoco che brucia e che bruciando lascia esplodere la luce. E poi ci addentriamo nella lentezza del dolore, nel freddo del raccoglimento, lasciando che le lacrime drenino e lavino la ferita, permettiamo al nostro corpo di aprirsi al vuoto, alla perdita, alla distruzione di ogni illusione, sentiamo il petto gonfio e pesante, e lasciamo che sia, con una presenza totale, mettendo a tacere la mente e orientando la nostra attenzione solo ed esclusivamente all’intensità emotiva che si manifesta dentro. Un atto iniziatico che genera qualcosa di meraviglioso: l’apertura del cuore alla compassione. La coscienza si schiude in uno spazio più ampio dal quale possiamo percepire l’amore per noi stessi e l’immensa gratitudine per la sofferenza, che ci sta permettendo una potente evoluzione.
Da questo spazio arriva una nuova comprensione: si scorge il senso di ciò che è successo; si comprende il significato vero e profondo di quel tradimento, di quel sopruso, di quella perdita: è possibile riconoscere le nostre vere responsabilità senza giudizio né colpa, e quelle dell’altro, senza rancore né giustificazione, e acquisiamo nuovi occhi per guardare gli stessi eventi. Non possiamo cambiare i fatti o la realtà esterna, ma possiamo modificare lo sguardo con cui la osserviamo.
Questo è il vero perdono: un atto cardiaco che permette di lasciar andare veramente il passato, rielaborandolo emotivamente, includendolo in una coscienza allargata, tenendo dentro solo il senso profondo del vissuto doloroso. Non occorre dimenticare, occorre ri-cordare, ossia far sì che tutto venga contenuto nel Cuore.