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L’inganno dello stimolo al fare: come perdersi nella superficialità 

C’è da fare, c’è da fare, c’è sempre qualcosa da fare e da rifare… cantava Gatto Panceri nel lontano 1995.

 

E in effetti se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che ogni istante della nostra vita è dedicato a qualche cosa da fare: dal momento in cui poggiamo un piede fuori dal letto al mattino, inizia un’infinita sequela di azioni volte a “tirare avanti la baracca” continuando a citare la simpatica canzone di Panceri.

 

C’è da fare colazione, rifare il letto, fare la doccia, fare il tragitto verso il lavoro, fare da mangiare, fare qualcosa per rilassarsi, fare sport, fare l’aperitivo con gli amici, fare l’amore con il partner. E in mezzo a tutto questo fare, la nostra mente pensa incessantemente a cosa abbiamo fatto, a cosa dovremo fare, a cosa non possiamo fare, a cosa vorremmo aver fatto ma non abbiamo potuto. E noi?

 

Noi subiamo tutto questo senza renderci conto che la vita ci sta attraversando, finché un giorno, magari in età avanzata, ci chiederemo: “ma io cosa ho fatto in tutti questi anni?”

 

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Gli stimoli ingannevoli

Nella società progressista del boom economico, adornata di schermi e luci abbaglianti, sempre più orientata alla produzione e al consumo fini a se stessi, noi esseri umani siamo costantemente spinti verso il nuovo archetipo di “macchina”, ossia una creatura priva di emozioni, razionale, obbediente, impegnata giorno e notte a sopravvivere attraverso la competizione e l’accumulo di denaro, beni e proprietà.

 

L’immagine attuale dell’umanità ci richiama quasi a un formicaio operoso in cui ognuno ha il suo ruolo, le sue mansioni e il suo carico di responsabilità. Non c’è più spazio per il riposo, per contemplare un tramonto, per rallentare il passo e godersi il profumo di un fiore, per guardare negli occhi le persone amate e semplicemente stare con loro senza fare nulla. Tutto il condizionamento mediatico ci propone il modello della prestazione, della performance, della corsa sfrenata verso un lavoro sicuro, che permette di passare dieci ore al giorno in un ufficio o in un magazzino in cambio di una quantità di denaro appena sufficiente a sopravvivere. E anche chi scambia il suo tempo con una quantità di denaro più desiderabile, resta schiavo degli acquisti compulsivi rimanendo così sulla soglia della sopravvivenza e in continua scarsità economica. I pochi che riescono ad accumulare somme di denaro importanti, si perdono nei consumi di lusso e cose comprate solo per impressionare gli altri.

 

Essere del tutto o in gran parte sconnessi dal nostro sentire, e rimanere identificati con la nostra personalità terrena, significa obbedire ciecamente alle leggi che la nostra mente ci impone, ovvero ordini che derivano da condizionamenti sociali e familiari. Una mente addormentata e scollegata dalla nostra coscienza, è come un computer che esegue in modo ripetitivo e meccanico gli schemi sempre uguali a se stessi, con qualche variazione sul tema piuttosto insignificante. Uno dei più grandi meccanismi indotti è proprio quello del fare. L’attivazione continua del nostro sistema nervoso simpatico, quello orientato all’azione, diventa fonte di stress senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Siamo sotto attacco di continui stimoli esterni a noi, filtrati dalla mente e trasformati in azioni automatiche. Quanto siamo presenti mentre ci laviamo i denti al mattino o mentre guidiamo la macchina? Quanto siamo connessi al nostro essere mentre parliamo con i colleghi o con i familiari?

 

Purtroppo per la maggior parte delle persone la risposta disarmante è: non ho presenza in ciò che faccio. C’è solo il corpo che si muove come una macchina governata dal server che risiede nel cervello e che pensa una serie di pensieri già pensati da altri.

 

La superficie della vita

Dedicarci al fare senza essere presenti significa vivere in superficie, come se ci sfuggisse qualcosa di più profondo, che possiamo ricondurre al vero senso dell’esistenza. Proviamo a porci queste domande: “Come mai sono nato/a? Cosa faccio qui su questa terra? Davvero la vita è tutta qui?”.

Come possiamo rispondere in modo autentico se non ci permettiamo di sentirci vivi e presenti nella nostra quotidianità? Come possiamo recuperare il mistero intrinseco che rappresenta il segreto più affascinante del nostro esistere? 

 

Forse è necessario a un certo punto rallentare e fermarci un attimo per poter osservare i dettagli della nostra vita attuale. Chi l’ha davvero costruita così? Chi ha davvero scelto il lavoro che facciamo, la casa in cui viviamo, gli oggetti che possediamo? Chi è che ogni giorno dedica la maggior parte del tempo a fare delle cose pensando ad altro?

 

Forse non siamo davvero noi… forse è solo lo sbiadito rifletto terreno di chi siamo veramente. Forse c’è necessità di risvegliarci e di riappropriarci della nostra coscienza, del nostro esserci e della nostra essenza profonda. Come sarebbe per te immaginare una vita più lenta, in cui c’è spazio per sentire cosa provi, cosa desideri davvero, cosa immagini di poter realizzare? Come ti sentiresti se ti concedessi il tempo per ascoltare il tuo cuore in profondità, per scoprire quali sono i tuoi veri talenti, per nutrirti delle tue passioni e mettere in atto le tue qualità?

 

Ecco che Gatto Panceri ci aveva lasciato una traccia con questa sua canzone: “Ci vuole più volontà per liberarsi, c’è da fare, sai, qualcosa di importante, c’è da fare, sai, qualcosa di più grande…”

Questo forse è il senso della vita: poter fare qualcosa di più grande rispetto a ciò che la nostra mente ci impone, rispetto a ciò che la società si aspetta. C’è da fare qualcosa di diverso: andare oltre la superficie, scendere più in profondità, attraversare i nostri schemi mentali per ricontattare l’essere e iniziare davvero a vivere.

 
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GILBERTO GIOVALE
GILBERTO GIOVALE
1 anno fa

Bell’articolo; un grande pericolo nasce anche quando uno segue l’impulso del fare quando non è in una situazione psicologica adeguata:Meglio “guarire” e destinare al fare il tempo di domani.